Se anche a voi è capitato almeno una volta nella vita di postare foto per raccontare una serata perfetta, un abito bellissimo, una fuoriserie, un piatto gourmet o un viaggio esotico straordinario, sappiate che stavolta mi sono soffermato proprio su questo aspetto.
Prima di postare l’ennesima foto speciale ho preferito fermarmi e fare un ragionamento per capire perché volevo condividere proprio quell’immagine, per chi lo stavo facendo e perché desideravo spettacolarizzare quel dato momento.
Per provare a comprendere a fondo il fenomeno dell’ostentazione di immagini “sopra le righe” sui social – e con esso l’effetto di fascinazione e invidia che queste rappresentazioni producono – può essere utile collocare il discorso entro una prospettiva storico-antropologica e sociologica.
Proverò a ragionare su diverse dimensioni:
Relativamente alle radici storiche dell’ostentazione e del prestigio, in numerose società, la rappresentazione “esagerata” di se stessi o del proprio status ha assunto forme diverse. Dalle pitture celebrative dei faraoni, alle statue degli imperatori romani, fino ai ritratti di nobili e aristocratici nel Rinascimento: spesso l’immagine aveva lo scopo di esibire potere, ricchezza o virtù.
In certi contesti tribali, come la cerimonia del potlatch presso alcune popolazioni indigene del Nord-Ovest pacifico, la distruzione o l’elargizione di grandi quantità di beni aveva una funzione rituale e serviva a stabilire o ribadire gerarchie di prestigio. In altre culture, il “big man” (in Melanesia, ad esempio) costruiva il suo status distribuendo ricchezza, esibendo forza e celebrando feste opulente.
Pur trattandosi di epoche e contesti lontanissimi, ho notato che il meccanismo di fondo è sempre quello di creare e consolidare capitale simbolico (Bourdieu), cioè la stima e l’ammirazione da parte degli altri, ottenuta mediante l’ostentazione (di beni, di conquiste, di uno stile di vita).
Guy Debord e la “società dello spettacolo”
La società dello spettacolo dice che la modernità porta tutto a trasformarsi in spettacolo. Sui social, ogni dettaglio della vita quotidiana può essere trasformato in show personale, con una regia quasi cinematografica.
La “messa in scena” della felicità, del successo o dell’avventura esotica è resa ancora più efficace grazie al potere iconico delle immagini: la fotografia e il video hanno un impatto emotivo diretto, che supera il semplice racconto verbale.
Se prima l’ostentazione era riservata alle élite in grado di commissionare ritratti o di organizzare feste sontuose, oggi la tecnologia digitale e la disponibilità di smartphone ha democratizzato questo fenomeno: potenzialmente, tutti possono produrre contenuti in cui mostrarsi in una luce speciale.
Secondo Erving Goffman, che ha studiato le dinamiche della vita quotidiana in chiave teatrale (la cosiddetta “prospettiva drammaturgica”), gli individui gestiscono costantemente la propria immagine e identità come se fossero su un palcoscenico, cercando di controllare l’impressione che gli altri ne ricavano. I social amplificano e radicalizzano questa “regia”: ognuno cura il proprio “profilo” come fosse la vetrina perfetta in cui esporsi.
L’enfasi sulle immagini e sui momenti straordinari risponde all’esigenza di distinguersi, per far vedere che la propria vita è unica, migliore, eccezionale; per confermarsi, per ottenere “like” e commenti positivi, che alimentano il sentimento di riconoscimento e approvazione.
Questo processo genera un circolo vizioso: per sentirsi all’altezza delle aspettative del proprio “pubblico”, si tende a postare foto sempre più spettacolari, gonfiate e spesso lontane dalla quotidianità reale.
Il bisogno che la rappresentazione spettacolare soddisfa è certamente la ricerca di status: sin dalle società più antiche, l’uomo cerca di acquisire prestigio per distinguersi all’interno del gruppo.
Oggi i like, i follower e i commenti di ammirazione fungono da “moneta sociale”. Non solo, anche il bisogno di appartenenza gioca il suo ruolo, dal momento che non basta solo distinguersi, occorre anche sentirsi parte di una comunità in cui valgono certe regole e certi modelli aspirazionali (viaggi incredibili, cibi gourmet, esperienze esclusive).
Pubblicare immagini che rispecchiano questi modelli consolida il senso di appartenenza alla cultura dominante di riferimento.
Ci mette lo zampino anche il confronto sociale: come dimostrano gli studi di Leon Festinger sulla “teoria del confronto sociale”, le persone valutano la propria condizione confrontandola con quella degli altri.
Vedendo immagini altrui spettacolari, alcune persone provano invidia o senso di inadeguatezza, ma ciò può anche aumentare il desiderio di migliorare il proprio “spettacolo”.
Esercizi di potere e controllo
Per alcuni, la possibilità di suscitare ammirazione (o anche un pizzico di invidia) negli altri è una forma di potere. Avere un ampio seguito sui social conferisce influenza, con ricadute economiche o semplicemente simboliche.
Nella società contemporanea, descritta da sociologi come Zygmunt Bauman come “liquida”, molte certezze tradizionali (lavoro stabile, legami di lunga durata, strutture sociali “fisse”) sono venute meno.
In questo scenario, l’identità è qualcosa di fluido, che va continuamente ricostruito e rappresentato.
La spettacolarizzazione della vita (attraverso immagini iper-filtrate e situazioni “perfette”) fornisce un punto fermo, una narrazione di sé più solida e desiderabile. In altre parole, espone agli altri (e a se stessi) un’identità coerente e rassicurante, anche se costruita in modo selettivo e talvolta artificioso.
Provo ad approfondire ulteriormente la questione: se il desiderio di prestigio e l’ostentazione (anche mediatica) sono fenomeni così radicati nella natura sociale dell’uomo, può esistere un momento o una condizione in cui questa “corsa al confronto” termini o si attenui in modo significativo?
E come si intrecciano i diversi momenti della vita (non necessariamente coincidenti con l’età anagrafica) con la spinta a mostrarsi e a differenziarsi?
La competizione simbolica – il desiderio di valorizzare la propria immagine sociale, sia per se stessi sia per gli altri – si radica nella natura relazionale dell’uomo.
Fin dai lavori di autori come Georg Simmel, si sottolinea come l’individuo sia sempre calato in un tessuto sociale che lo porta, per definizione, a confrontarsi con l’altro.
Questo confronto può assumere forme più o meno accentuate nel corso della vita, ma di norma non scompare mai del tutto, perché rientra nel più ampio bisogno di riconoscimento.
Transvalutazione e ricerca di nuovi valori
In alcune condizioni, tuttavia, si può assistere a una “ridiscussione” dei valori dominanti o di un proprio vissuto personale tale da attenuare la necessità di ostentare.
Ciò può avvenire, ad esempio, in seguito a crisi esistenziali o momenti di svolta (malattia, lutti, burnout) che spingono la persona a rivedere drasticamente le priorità, orientandosi verso aspetti di autenticità, essenzialità, minimalismo, oppure, percorsi di crescita personale (psicoterapie, pratiche filosofico-spirituali, esperienze di vita comunitaria) che mettono in discussione la valenza dell’apparire come primario meccanismo di riconoscimento, portando a ricercare forme di autostima più radicate internamente.
In questi casi, la competizione simbolica non scompare “per legge naturale”, ma si ricolloca dentro una cornice di valori diversi (l’autenticità, la semplicità, la condivisione piuttosto che la distinzione ostentata).
La sanzione sociale
Un altro fattore che può frenare (o modificare) il perpetuo confronto è la reazione dell’uditorio.
Quando il contesto sociale – il network, la comunità di riferimento – condanna o ridicolizza forme di ostentazione eccessiva, chi ostenta può trovarsi in difficoltà.
Nel momento in cui un gruppo sociale “boccia” certi comportamenti come fuori luogo, questi vengono percepiti come un autogol, con conseguenze negative sull’immagine di chi li mette in atto. Da qui deriva la scelta di strategie comunicative più sottili (magari forme di lusso “discreto”, segni di distinzione meno gridati, ecc.).
Età biologica
Le fasi dell’auto-realizzazione o dell’affermazione dell’Io non seguono necessariamente l’età biologica. Si possono vedere “adolescenti tardivi” di 50 anni e persone assai giovani con un sistema valoriale più maturo. Ogni nuova fase può comportare la necessità di riconoscimento e la volontà di dimostrare qualcosa – a se stessi o agli altri.
Approccio “lifelong” dell’identità digitale
Oggi, la forte componente digitale prolunga e trasforma queste fasi. In una società connessa, dove si è costantemente “sul palcoscenico” attraverso i social, c’è sempre spazio per sperimentare nuove identità, o per rilanciare un’immagine di sé in modi inediti.
Questo fa sì che la “corsa allo status” possa ripresentarsi a intervalli diversi, riattivando momenti di ostentazione (o di insicurezza) anche quando socialmente ci si aspetterebbe una maggiore “serenità” o “stabilità” identitaria.
Il doppio destinatario: gli altri e sé stessi
Il proponente confeziona un contenuto tenendo a mente non solo il “pubblico” (pari, colleghi, follower) ma anche se stesso. È una messa in scena che allo stesso tempo funziona come auto-rinforzo psicologico e come performance rivolta agli altri.
Per gli altri, l’uso di immagini serve a esercitare potere evocativo (ad esempio: “Vedi come vivo, quanto sto bene, i luoghi che frequento”).
Per se stessi, pubblicare foto che incarnano la propria idea di lusso o benessere è un modo di “specchiarsi” nell’immagine che si vorrebbe realizzare o perpetuare.
Questa dimensione interna è cruciale e spesso sottovalutata: la gente produce contenuti non solo perché “vuole impressionare”, ma anche perché insegue una sorta di “auto-narrazione”, un racconto di sé in cui crede o che vorrebbe diventasse realtà.
La moneta del sociale
I “like”, i commenti, i messaggi di approvazione funzionano come la moneta di scambio di questo sistema. Quando questi feedback mancano o sono negativi, si genera dissonanza e l’individuo può sentirsi svuotato o inadeguato, oppure spingersi a esagerare ulteriormente per recuperare attenzione.
Ricordando Thorstein Veblen (personaggio super interessante), sappiamo che il lusso (e più in generale i simboli di agiatezza) è soggetto a una continua “fuga in avanti”:
Quando un determinato elemento di status (una marca, uno stile di vita) diviene accessibile a un pubblico più ampio, la classe o il gruppo che prima lo deteneva come segnale di distinzione tende ad abbandonarlo, spostandosi verso nuovi simboli esclusivi.
È un gioco di posizionamento continuo, dove ciò che “prima era di pochi” diventa inflazionato una volta che è di molti, perdendo la sua carica elitaria.
Le tendenze dei contenuti sui social
Sui social, questo si traduce in una rapida evoluzione delle tendenze: luoghi di vacanza diventano saturi di turisti desiderosi di replicare foto “iconiche”; marchi di lusso si diffondono al punto da apparire meno esclusivi; stili di vita che un tempo stupivano, perdono la loro carica di novità.
È un circolo che non si esaurisce, poiché la conquista di uno status spinge a inseguirne un altro, più aggiornato e ricercato.
Non è tutto oro quello che luccica
Ora proverò invece ad analizzare il fenomeno della distorsione derivante dalla differenza tra il racconto di se sui sociale e la vita vissuta nel reale.
Erving Goffman, nella sua prospettiva drammaturgica, ci ha mostrato come tutti noi, in fondo, “recitiamo” nella vita quotidiana per presentare un’immagine coerente e desiderabile di noi stessi.
Tuttavia, la possibilità di creare narrazioni online (foto, post, storie, reel) ha reso il palcoscenico potenzialmente infinito e immediatamente accessibile.
Attiviamo la recita per bisogno di coerenza, poiché la nostra identità non è un dato immutabile, bensì un insieme di ruoli e aspettative che cerchiamo di ricomporre in una storia coerente; per bisogno di riconoscimento, poiché l’autostima passa attraverso un feedback sociale (like, commenti, approvazione) che ci conferma la bontà della nostra “messa in scena”.
Quando l’auto-narrazione si discosta eccessivamente dalla quotidianità reale, corriamo il pericolo di vivere in una sorta di “finzione continua”. Alcuni punti cruciali:
Gli scollati
La persona crea una seconda vita (o “sceneggiatura”) così idealizzata che, per poterla “sostenere”, deve continuamente mentire a sé e agli altri, o selezionare in modo esasperato i momenti da mostrare e, nel tempo, la dissonanza tra il “racconto” e la vita effettiva può diventare insostenibile, innescando frustrazione.
I cannibali
Più si alimenta un’immagine “falsata”, più si indebolisce la percezione di chi si è davvero, con un impoverimento dell’autenticità, la persona si trova a difendere con forza l’immagine fittizia (che è divenuta un “brand di sé”), temendo di essere smentita o smascherata.
In più, quando si deve recitare costantemente una parte, si rischia di perdere contatto con i bisogni profondi e con le emozioni reali.
Mi sono spesso confrontato con ragazzi e ragazze sul tema della dissonanza tra finzione e realtà rappresentata e non tutti reagiscono allo stesso modo.
Ci sono soggetti emotivamente “forti” che possono trarre spunto dall’incoerenza tra vita reale e auto-narrazione per rinnovarsi, rimodellare il proprio racconto in modo più autentico o evoluto.
A volte, questa presa di coscienza porta a un cambiamento costruttivo (ad esempio, un “rebranding” più sincero, un cambio radicale di stile di vita, un percorso di crescita personale).
Poi ci sono i soggetti giovani o fragili che rischiano di non avere le risorse psichiche o relazionali per sostenere la tensione tra il sé desiderato e il sé reale.
Le “crepe” nel racconto possono generare insicurezza e crisi di identità. La persona finisce per non sapere più chi è davvero, oscillando tra la voglia di mantenere lo status “idealizzato” e la consapevolezza di non esserne all’altezza.Nei casi più estremi, si possono manifestare fenomeni di ansia sociale, depressione o ritiro (per esempio, la rinuncia totale ai social).
Un elemento sicuramente importante è la reazione del contesto, in termini di validazione e rinforzo.
Se il contesto (amici, follower, familiari) incoraggia o ammira la “commedia”, la persona trova un rinforzo che la spinge a proseguire, anche se in cuor suo ne percepisce la falsità.
In un’ottica di mercato (per influencer o aspiranti tali), più i numeri crescono, più si può essere indotti a proseguire nella costruzione del personaggio, anche a discapito di un’autentica realizzazione personale.
Al contrario, se l’ambiente in cui si opera inizia a criticare, ridicolizzare o “smontare” la messa in scena, la frustrazione e il senso di colpa possono aumentare.
Paradossalmente, una rottura plateale (essere smascherati, perdere credibilità) può innescare una “crisi salutare” che, in alcuni casi, favorisce la ricostruzione di un sé più autentico.
Il punto cruciale sta nell’equilibrio tra la proiezione di ciò che vorremmo essere e la consapevolezza onesta di ciò che siamo oggi. Tanto più questo equilibrio è curato, tanto più si evita di cadere nella trappola di una narrazione sterile, che finisce per svuotare la persona anziché arricchirla.
Uso pubblico del dolore
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un enorme cambiamento nel modo in cui viviamo e condividiamo la sofferenza. Un tempo, lutti, malattie o momenti di forte disagio restavano confinati tra le mura domestiche, o tutt’al più ne parlavamo con amici intimi e familiari.
Oggi, invece, è sempre più comune “mettere in piazza” ciò che ci tormenta, affidandoci ai social network come fossero una grande piazza virtuale. È una novità che, da un lato, ci permette di sentirci meno soli, ma dall’altro apre la strada a risvolti delicati, se non addirittura inquietanti.
Cosa succede dentro di noi
Quando troviamo il coraggio di aprirci e raccontare il nostro dolore online, spesso il primo effetto è un senso di sollievo. Sapere che qualcuno, anche se dall’altra parte dello schermo, è disposto ad ascoltare o a lasciare un commento solidale può regalarci un piccolo spiraglio di luce. Ci sentiamo meno isolati, e il solo fatto di dare voce a quello che proviamo può aiutarci a mettere un po’ di ordine nella confusione interiore.
In certi casi, poi, ci imbattiamo in persone che hanno vissuto esperienze simili e che possono offrirci consigli o contatti utili, trasformando i social in un vero e proprio punto di sostegno.
Quando il dolore si trasforma in opportunità
Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia.
A volte, il dolore messo in piazza può trasformarsi in una sorta di “spettacolo”, dove like, condivisioni e commenti funzionano quasi come il pubblico di un teatro. Alcune persone finiscono per esporre in modo eccessivo i propri drammi, consapevoli che le storie forti “fanno audience”. In certi casi, dietro questa ostentazione, si nascondono ragioni opportunistiche: voglia di popolarità, ricerca di donazioni o sponsorizzazioni. È un corto circuito che non solo svilisce la sofferenza autentica, ma rischia di lasciare l’autore in balìa di un’attenzione morbosa più che di un vero conforto.
Piccoli contesti, grandi solitudini
Per chi abita in piccole realtà o contesti piuttosto chiusi, aprirsi sui social può diventare l’unica alternativa per non sprofondare nella solitudine. In certi luoghi, infatti, può essere difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltare senza giudicare.
Così, il web diventa una finestra che si spalanca sul mondo, permettendo di raggiungere persone empatiche e più affini.
Allo stesso tempo, però, è importante ricordare che, se manca un sostegno reale nella vita di tutti i giorni, c’è il rischio di affidarsi in modo eccessivo a questo rifugio virtuale, perdendo l’occasione di costruire legami solidi anche nel proprio ambiente.
Un confine sottilissimo
Spesso, la linea di demarcazione tra chi condivide il dolore in cerca di aiuto sincero e chi lo fa per secondi fini è molto sottile. Può capitare che, partendo con l’intento onesto di trovare sostegno, ci si faccia prendere dall’ansia di ottenere like e reazioni, spingendosi oltre e “spettacolarizzando” il proprio dolore. D’altra parte, ci sono anche situazioni in cui il racconto di una sofferenza reale viene frainteso o giudicato in modo superficiale, e si passa rapidamente dall’empatia al sospetto. È un meccanismo complesso, in cui la ricerca di vicinanza umana può sfumare, involontariamente, in mera ostentazione.
Condividi responsabilmente
Nel bel mezzo di queste ambiguità, l’importante è mantenere equilibrio e sensibilità.
Se da una parte è vero che il dolore “portato fuori” e accolto da una rete empatica può davvero fare la differenza, dall’altra non dobbiamo dimenticare che il mondo dei social è regolato anche da logiche di visibilità e voyeurismo.
Uno sguardo critico ci aiuta a smascherare la strumentalizzazione e a proteggere chi è davvero fragile e in cerca di ascolto. Allo stesso tempo, uno sguardo solidale ci ricorda che dietro ogni post, ogni foto e ogni messaggio di disperazione c’è un essere umano che ha bisogno di comprensione, e non soltanto di click.
In fondo, questa è la grande sfida: costruire comunità capaci di accogliere e ascoltare davvero, senza trasformare il dolore in una merce da vendere o in uno show da guardare. Se sapremo unire la forza dei legami online a quella delle relazioni offline, potremo fare dei social uno spazio in cui la sofferenza si trasforma in sostegno reciproco e calore umano autentico.
Solo allora, il digitale e il reale si uniranno.
Ciaoooooooooooooooooo!