Anno 2001.
Un me giovanissimo muoveva i primi passi nel mondo del lavoro. Faticosamente. Con più domande che risposte, più entusiasmo che metodo, e spesso una sensazione scomoda di sentirsi fuori posto.
La gavetta era reale: insuccessi, frustrazioni, incomprensioni. Mancavano punti di riferimento, e io navigavo a vista.
Poi un giorno, durante uno sfogo per una questione di lavoro andata male, una persona molto più grande di me – di poche parole ma dal peso specifico enorme – mi disse soltanto:
“José, tu non chiudi.”
Rimasi in silenzio. Non capivo.
Non aggiunse altro.
E quella frase rimase lì, come una porta socchiusa nella mente. Non riuscivo a dimenticarla, ma nemmeno a capirla.
Ci ho pensato a lungo. Ma la risposta non arrivava.
Quando lo rincontrai, tempo dopo, gliela ripetei.
Lui ci mise un attimo a ricordare, poi mi disse:
“Tu lasci troppe cose aperte. Cominci, ma non porti a termine. Tendi a diluire, a rimandare, a lasciare che il tempo si occupi di ciò che invece spetterebbe a te concludere. E così le cose restano a metà, e anche tu resti a metà.”
All’epoca mi sembrò un rimprovero.
Mi difesi, dentro di me.
Ma con il tempo quella frase è diventata una lente con cui ho riguardato tante scelte, tanti modi di fare.
E sì, aveva ragione.
Avevo mille idee, ma poche conclusioni.
Iniziavo, ma non chiudevo.
Nel lavoro, nei rapporti, nei conflitti: lasciavo che le cose si raffreddassero da sole. Pensavo che ignorare significasse proteggere l’equilibrio. Ma dentro, intanto, accumulavo insicurezza. E galleggiavo.
Col tempo ho capito che chiudere non significa interrompere.
Chiudere è un atto di cura.
È responsabilità. È rispetto.
Chiudere vuol dire dare una forma, portare a termine, tirare le somme, anche quando costa.
Dare una fine, anche quando non è perfetta, è il primo passo per poter davvero cominciare qualcosa di nuovo.
Da quando ho iniziato a prendermi questa responsabilità, la mia vita è cambiata.
La mia autostima ha trovato basi più solide.
La fiducia in me stesso si è rafforzata.
L’ansia si è attenuata.
La sindrome dell’impostore ha cominciato a fare meno rumore.
Chiudere mi ha insegnato a concretizzare: le idee, i progetti, le relazioni.
Mi ha insegnato che il valore non è solo nell’inizio, ma nel compimento.
Nelle relazioni personali, forse, è arrivata la lezione più forte:
non lasciar sospese le cose che fanno male.
Ho smesso di ingoiare per quieto vivere.
Ho imparato a chiarire, a dire, a finire – con rispetto, ma anche con fermezza.
Perché solo ciò che si chiude può essere lasciato andare.
Oggi, di fronte alla mia scrivania, c’è una lavagna in vetro.
Al centro, un cerchio con un punto e una freccia.
Accanto, una sola frase:
“Questo è il punto.”
Mi ricorda ogni giorno di restare presente. Di non sfuggire.
Di affrontare anche le cose piccole, perché ogni piccolo punto chiuso è un passo in avanti.
Anche i problemi più grandi, oggi li scompongo in piccole questioni da affrontare e chiudere, come mi ha insegnato Ornella.
E se non c’è soluzione, come diceva qualcuno, allora non c’è nemmeno il problema.
Scrivo tutto questo per chi, come me un tempo, lascia spesso le cose aperte.
Per paura, per abitudine, o perché nessuno gliel’ha mai insegnato.
Chiudere non è perdere.
È imparare a finire.
E finire, a volte, è il modo più autentico di cominciare.
Molto interessante questo articolo, mi ci rivedo molto e cercherò di adottare lo stesso approccio nella mia vita. Grazie Customer Mindset.