Questa settimana mi sono veramente divertito a scrivere insieme a un mio grande amico, Paolo Parente, fondatore e CEO di Webeetle con il quale condivido ragionamenti filosofici sul digitale.
Le nostre conversazioni sono sempre interessanti e profonde e oggi vi propongo un riassunto del nostro ultimo incontro, avvisandovi che si tratta di un articolo lungo e ricco di personaggi che, in modo o in un altro, sono artefici delle tecnologie che abbiamo oggi.
Negli anni Sessanta, un gruppo di programmatori e attivisti statunitensi concepì un'evoluzione dell'informatica molto diversa da quella che oggi consideriamo l'unico percorso possibile.
L'articolo di Evgeny Morozov, pubblicato nel numero 1579 del 6 settembre 2024 di “Internazionale”, racconta un episodio cruciale accaduto intorno alle 15:00 del 24 ottobre 1968, durante il secondo simposio annuale dell'American Society for Cybernetics.
Quest'associazione, che comprendeva accademici, spie, politici e uomini d'affari, era stata fondata da un agente della CIA per contrastare l'espansione dell'influenza sovietica nel campo dell'informatica e della "cibernetica", un concetto che prefigurava l'attuale intelligenza artificiale.
Alla fine degli anni Sessanta, la società statunitense era profondamente divisa da conflitti interni ed esterni, e la cibernetica sembrava promettere un ritorno all'ordine, utilizzando i computer per eliminare il caos e rendere la vita di nuovo prevedibile.
Un manager della Control Data Corporation (CDC), un collaboratore della CIA, salì sul palco dell'auditorium per presentare il progetto dei "centri di informazione condivisi".
Questo programma prevedeva l'uso dei supercomputer della CDC per servire il pubblico, offrendo informazioni, ricette, monitoraggio della salute pubblica e persino consigli sentimentali. Secondo lui, i computer sarebbero stati "fedeli servitori al servizio dell'umanità".
Fino alle 15:32, il pubblico fu affascinato da visioni di un futuro cibernetico paradisiaco.
Ma poi entrarono in scena Avery Johnson e Warren Brodey, pionieri dell'American Society for Cybernetics, che stavano conducendo una rivoluzione contro-culturale nel ristretto e serio mondo dell'informatica.
Con il loro intervento, speravano di fermare quella che consideravano una catastrofe imminente.
Credevano che aziende come IBM e CDC stessero portando la società su una strada pericolosa.
All'epoca, queste compagnie gareggiavano nello sviluppo e nella vendita di grandi mainframe, ancora alimentati da schede perforate, utilizzati per gestire buste paga e inventari.
L'era dei personal computer, dei tablet e dei dispositivi intelligenti era ancora lontana, ma quell'epoca era caratterizzata da entusiasmo e sperimentazione.
Nel 1968, non era ancora del tutto chiaro quali sarebbero stati i veri scopi dei computer, ed era difficile immaginarlo.
Johnson e Brodey ritenevano che le aziende non avessero considerato un aspetto filosofico cruciale: i computer erano destinati a essere semplici esecutori di compiti ripetitivi, o potevano diventare qualcosa di più, come artigiani?
Mentre i servitori obbediscono senza esitazione, gli artigiani hanno la libertà di esplorare e persino di sfidare le direttive, arricchendo la società con la loro creatività e abilità.
Johnson e Brodey volevano evitare che le aziende tecnologiche riducessero i computer a macchine sottomesse.
La loro visione dell'informatica non riguardava l'automazione o le previsioni. La tecnologia, per loro, doveva ampliare i nostri orizzonti.
Invece di chiedere a un computer di consigliare un film in base a ciò che avevamo già visto, speravano che potesse farci scoprire nuovi generi mai considerati.
"Se consideriamo Netflix, l’algoritmo di raccomandazione è fortemente basato sul suggerimento di film vicini alle nostre preferenze."
La loro tecnologia avrebbe reso le persone più sofisticate, critiche e riflessive, anziché semplici consumatori passivi di contenuti generati dall'intelligenza artificiale.
Questa è per me una stratificazione digitale, una sorta di appiattimento moderno, abbastanza pervasivo in quasi tutti i settori di massa.
Ciò che Morozov ha scoperto è che i tipi di interattività e intelligenza che oggi vediamo nei nostri dispositivi non sono gli unici possibili.
Una ulteriore riflessione certamente pertinente è quella di Shoshana Zuboff, che nel suo libro “Il capitalismo della sorveglianza” (2019) espone come la Silicon Valley abbia consolidato un modello economico basato sulla raccolta massiccia di dati comportamentali per prevedere e influenzare il comportamento umano.
Zuboff sostiene che questo nuovo tipo di capitalismo non mira soltanto a soddisfare le esigenze degli utenti e a “standardizzarle”, ma a prevederle e, sempre di più, a manipolarle per favorire gli interessi delle grandi corporazioni digitali.
Questo modello va oltre la visione "soluzionista" descritta da Evgeny Morozov.
Zuboff afferma: "Il capitalismo della sorveglianza sa cosa faremo prima di noi stessi, utilizzando le nostre azioni e pensieri come materie prime per un mercato che ci manipola da dietro le quinte."
Lungi dal risolvere i problemi sociali, questa forma di capitalismo crea una nuova forma di soggezione digitale, dove le nostre scelte appaiono libere, ma in realtà sono fortemente condizionate da algoritmi progettati per massimizzare i profitti delle aziende.
Quelle che oggi consideriamo caratteristiche inevitabili del panorama digitale sono in realtà il risultato di battaglie tra visioni diverse del futuro tecnologico.
La Silicon Valley, alla fine, ha scelto la strada più conservatrice
Jaron Lanier, uno dei pionieri dell'intelligenza artificiale, ci ricorda che "le tecnologie non sono neutrali" e che chi le progetta detiene un potere straordinario.
Nel suo libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” (2018), Lanier mette in guardia contro l'idea che le piattaforme digitali siano strumenti di emancipazione sociale: in realtà, spesso fungono da strumento per concentrare il potere nelle mani di pochi, a discapito di un vero arricchimento culturale e sociale.
Possiamo davvero individuare il film, la musica o la persona "giusta" nello stesso modo in cui si regola la temperatura di una stanza? Oggi, servizi di streaming, app musicali e piattaforme di incontri sembrano convinti di sì, ma Johnson e Brodey non erano d'accordo.
Per trent'anni, la nostra comprensione della tecnologia è stata plasmata dall'ideologia dominante della Silicon Valley, che Morozov ha definito "soluzionismo" nel suo libro “Internet non salverà il mondo” (Mondadori, 2014).
Il soluzionismo sostiene che ogni problema, personale, sociale o politico, possa essere risolto attraverso la tecnologia. I progressi nel campo dell'informatica e della connettività, uniti ai profitti generati, hanno alimentato la convinzione che la tecnologia fosse la risposta definitiva a tutti i mali sociali.
Il pensiero soluzionista (nei fatti, spinto dalla necessità di creare nuovi business) ha portato alla creazione di città intelligenti, monitorate da sensori per la gestione del traffico e dei rifiuti, dispositivi indossabili per il controllo della salute, e social media che promettono di migliorare le nostre relazioni personali.
Tuttavia, questa ossessione per l'ottimizzazione (l'economia dei comportamenti futuri, secondo Zuboff) ha ridotto le complesse esperienze umane a semplici dati, trascurando i contesti in cui i problemi si manifestano.
Questa tendenza ha permeato ogni ambito tecnologico e comunicativo, come il digital design, dove la famosa UX (user experience) è diventata il fulcro di qualsiasi sito o applicazione esistente.
Abbiamo investito tempo e risorse per studiare e perfezionare le modalità migliori per rendere la navigazione, l'interazione e il raggiungimento degli obiettivi di business il più semplice e intuitivo possibile, attraverso tecniche e principi che riducono il carico cognitivo, rendendo tutto veloce e immediato.
Ovviamente, nella comunicazione, la chiarezza è essenziale, così come l'accurata disposizione degli elementi di una pagina web per trasmettere efficacemente il messaggio.
Questo è un punto fondamentale
Un'altra questione, però, è l'abuso di pratiche ingannevoli, scorciatoie e semplificazioni eccessive che non lasciano spazio al ragionamento da parte degli utenti.
A questo punto ci sorge un dubbio.
I web designer dovrebbero seguire logiche progettuali funzionali, strettamente connesse all'identità visiva del brand, dei prodotti e dei servizi offerti. Nella creazione di interfacce complesse, dovrebbero rendere chiare e accessibili le funzionalità, senza tuttavia rinunciare a spazi per personalizzazioni basate sugli utenti.
Forse dovremmo immaginare un nuovo modello progettuale?
Un modello che miri a realizzare sistemi evolutivi, in grado di essere aggiornati continuamente in base alle esigenze, all'utilizzo e alla nostra costante evoluzione, poiché nulla può essere statico o immutabile.
Le informazioni, lo stato del sistema, le disposizioni dei comandi, dovrebbero essere soggettivamente ideati per la persona e non genericamente per le persone.
Dovrebbero tenere in considerazione i deficit di adattamento visivo, i livelli informativi differenti e le conoscenze pregresse delle persone, unitamente alle modalità soggettive di utilizzo.
Un modello che possa spostarsi da una progettualità "per tutti" verso una maggiore concentrazione alle particolarità del singolo individuo.
Tornando al discorso di prima, la visione di Nicholas Negroponte (New York City, 1 dicembre 1943), celebre per i suoi studi innovativi nel campo delle interfacce uomo-computer e le sue profezie, ha prevalso in gran parte perché le aziende statunitensi e il Pentagono hanno favorito soluzioni semplici e utilitaristiche, fornendo generosi finanziamenti alle prime ricerche sulla realtà virtuale.
Piccolo approfondimento: Chi è Nicholas Negroponte?
Nicholas Negroponte, cofondatore del MIT Media Lab, è noto per le sue previsioni futuristiche spesso criticate all’inizio, ma che poi si sono rivelate esatte, come l'invenzione del touchscreen negli anni '70 e la previsione degli acquisti di libri online negli anni '90.
Oggi, a 74 anni, Negroponte è focalizzato sul biotech, che definisce "il nuovo digitale", con particolare attenzione alla biomeccatronica, la tecnologia cibernetica che migliora le capacità fisiche degli esseri viventi. In una recente conferenza, ha parlato di una visione futura in cui pillole potrebbero trasferire conoscenze direttamente al cervello, bypassando gli occhi, una prospettiva che oggi appare incredibile, ma che potrebbe realizzarsi. I suoi obiettivi principali restano l’accesso gratuito a Internet per tutti e l’educazione globale, sostenendo che la programmazione aiuta a sviluppare il pensiero critico.
Per Negroponte, la connettività dovrebbe essere un diritto umano garantito a livello globale.
Johnson e Brodey, invece, immaginavano un tipo di intelligenza digitale che oggi risulta quasi inimmaginabile.
Vedevano le persone come esseri mutevoli, in costante evoluzione, e consideravano questa qualità come un punto di forza, non come un difetto.
Ad esempio, Brodey non avrebbe progettato una sedia "reattiva" che si adatta perfettamente all'uomo, ma un sistema in continuo cambiamento, come l'essere umano, affermando che "noi non siamo macchine".
Nel 1970, Brodey osservava che "le scelte non sono processi intellettuali". Le facciamo agendo, esplorando e scoprendo cosa ci piace man mano che procediamo."
La visione di Nicholas Negroponte, che ha prevalso, fu favorita da finanziamenti statunitensi e dal Pentagono, che supportavano ricerche pratiche e utilitaristiche, come la realtà virtuale.
Johnson e Brodey, senza il supporto delle potenti forze dominanti, incontrarono un destino avverso.
Tuttavia, le loro intuizioni ci lasciano un messaggio fondamentale: se desideriamo una tecnologia che espanda le nostre scelte, dobbiamo finanziare quest'innovazione, così come finanziamo l'istruzione e la cultura pubblica.
Scaricare tutta la musica classica del mondo su Spotify non trasformerà nessuno in un intenditore. La tecnologia non riguarda solo la conservazione e la monetizzazione dei gusti esistenti; può anche arricchirli, approfondirli e democratizzarli.
Un approccio "post-soluzionista" sembra più realistico del continuare a credere che algoritmi e intelligenza artificiale risolveranno ogni problema. Nonostante l'entusiasmo per l'IA generativa, è improbabile che scateni una rivoluzione creativa; potrebbe invece limitarla, sottraendo opportunità agli artisti e agli insegnanti.
Una tecnologia che risponda realmente alle intuizioni di Johnson e Brodey necessita inevitabilmente di un processo di democratizzazione della sua fase progettuale.
Per rendere fattiva questa dimensione, come indica lo stesso Morozov, è necessario rivedere i ruoli di governi e delle politiche pubbliche, poiché il controllo delle tecnologie non può essere lasciato nelle sole mani delle grandi aziende private.
Va probabilmente ripensato il concetto di innovazione in termini di benefici collettivi e non solo di efficienza economica.
Stiamo creando un mondo sempre più compatto, portatile e a portata di mano, spingendoci oltre i limiti delle unità di misura, sfidando il micron per rendere tutto più facile, accessibile e immediato.
Rendere i tablet più sottili e potenti non altererà questa realtà.
Ma siamo certi che queste tecnologie pervasive saranno davvero un motore per l'evoluzione?
Probabilmente no. Piuttosto, rischiano di guidarci in una direzione opposta, accelerando il processo di involuzione anziché promuovere una vera crescita.
A oltre mezzo secolo dalla conferenza interrotta da Johnson e Brodey, la loro preoccupazione rimane in gran parte irrisolta. I produttori di tecnologia hanno sfruttato un'immagine controculturale per promuovere personal computer sempre più "umani" e intimi, riducendone le dimensioni e rendendoli più accessibili.
Per Brodey, l'aula rappresentava l'esempio ideale di ambiente intelligente, uno spazio progettato per stimolare nuovi desideri e forme di apprendimento.
Negroponte, invece, vedeva nel salotto il modello perfetto: un luogo dove si soddisfano esigenze di intrattenimento, shopping e lavoro occasionale.
Oggi viviamo nel "salotto di Negroponte" e ci si può solo chiedere come sarebbe stato il nostro mondo digitale se fosse stato modellato sull'idea dell'aula.
Questo è un momento opportuno per riflettere sull'uso moderno delle tecnologie, acquisirne una maggiore consapevolezza e avviare un nuovo discorso costruttivo, proprio all'inizio della diffusione di massa delle tecnologie basate sull'intelligenza artificiale.
Sebbene possa sembrare difficile, come lettori e osservatori, influenzare un cambiamento globale, ciascuno di noi ha un ruolo che si riflette su piccole realtà, dove possiamo avere un impatto più concreto.
Chiedersi come vorremmo vivere in futuro è un interrogativo legittimo, e immaginarlo diventa più semplice se dotati delle giuste informazioni. Conoscere il passato e comprendere il presente ci offre la possibilità di pianificare meglio il futuro.
L’esperienza ci insegna che le persone tendono a usare i mezzi di comunicazione in modo funzionale alle proprie esigenze. Possiamo osservarci nel quotidiano mentre "pieghiamo" i media a usi diversi da quelli per cui sono stati progettati, aprendo una finestra su come potrebbe essere il futuro.
Non sarà facile, dal momento che minore è l'impegno cognitivo richiesto e maggiore è l'adattamento a modelli di utilizzo consuetudinari che ottimizzano il nostro tempo.
Certo è che spesso le nuove pratiche nascono accidentalmente, ma non possiamo di certo sperare nell'incidentalità dei processi, fatte rare eccezioni, per scoprire ciò che è nuovo.
José Compagnone e Paolo Parente