Giù la maschera
C’è forse un momento della vita in cui è bene fermarsi e fare qualche riflessione, a volte capita in seguito a un momento di stanchezza dovuto all’avvicinarsi della fine dell’anno lavorativo, che cade notoriamente in concomitanza con il fermo estivo, quindi non termina propriamente con l’anno solare.
Talvolta arriva quando alla tua porta bussa il Signor Burnout.
Molte organizzazioni vivono un tempo utile poco sincronico, qualche settore non dorme mai, altri settori invece hanno alti e bassi, periodi stagionali e andamenti anomali. Ogni settore commerciale ha le sue particolarità.
Alcuni miei colleghi lavorano d’estate perché si occupano del comparto turistico, altri lavorano incessantemente tutto l’anno, ognuno incardinato in un modello di business che ha costruito, validato, che funziona o che si trascina dietro mille inefficienze.
Altri girano a vuoto e ogni tanto, con una logica tipica della migliore delle lotterie, riescono a risalire la catena del cibo, ma senza mai domandarsi cosa non va, cosa bisognerebbe cambiare e cosa bisogna migliorare per stare meglio, per lavorare con più serenità, facendo valere quello che è stato costruito e non svalutando il proprio tempo e il proprio lavoro.
Consapevoli di cosa si è scelto di diventare?
Generalmente le complessità che incontro non sono relative alle esecuzioni materiali del lavoro ma sono “baricentrate” sulle complessità umane, con tutte le indecisioni del caso, che contribuiscono a generare caos e malcontento.
Manca l’equilibrio tra vita personale e vita lavorativa, tra passione e obbligo, tra quello che si vorrebbe essere e quello che di fatto mostriamo agli altri, che forse non assomiglia sempre alla verità.
Ma è il mondo che viviamo che spesso spinge verso la finzione e queste finzioni, quando diventano collettive, sono deleterie, perché disegnano un mondo bizzarro e strano a vedersi, dove le cose vanno avanti in ogni caso per abbrivio.
Quello che ho notato è che c’è una separazione sempre più estrema tra la vita reale di tutti i giorni e le proiezioni che le persone offrono online. Una separazione enorme.
Perché raramente scegliamo?
Al centro ci siamo noi, con i nostri mille condizionamenti, con i paletti “bloccanti”, con le consuetudini, con le abitudini difficili da eradicare, incatenati in un flusso che ci porta a contatto con altre persone, con molte delle quali non vorremmo stare.
Dall’altro lato ci sono le convenienze, le valutazioni dei vantaggi che diventano indispensabili per poter condurre lo stile di vita che abbiamo scelto.
Non tutti stanno davvero bene nel posto che hanno scelto e si costringono, a volte auto-sabotandosi, a perpetuare quel determinato modello, perché tutto sommato va bene così.
Questo fa sì che non venga esercitato il potere della scelta, perché scegliere spesso fa paura, per via delle conseguenze che la responsabilità della decisione si porta dietro.
È che un salto nel buio ci sembra spaventoso, eppure talvolta arriva un evento della vita che ti dà una bella spinta e ti fa capire che hai vissuto una vita sottraendoti alle responsabilità; arriva qualcuno o qualcosa che finisce per scegliere per te. Come se fosse una cosmica energia che è capace di riappropriarsi degli spazi e dei tempi e reclama una risoluzione, che dal punto di vista razionale siamo incapaci di prendere.
Parliamo del contesto invece. Tutto intorno a noi cerca di comunicare il meglio, il positivo, il successo, la meta, il che non è il male assoluto ma induce a credere che intorno a te ci sia molto movimento mentre tu sei fermo, in balia dei post altrui, in attesa della spinta motivazionale, che talvolta stenta ad arrivare e genera inadeguatezza. È un problema di ritmo, di allenamento e di costanza.
Sei il nemico di te stesso?
Il mondo “performativo” ci racconta che se insisti tanto alla fine riesci, che è possibile realizzare tutto, che puoi essere chi vuoi davvero, che il limite per il tuo successo personale e professionale sei tu, come se fossi davvero l’artefice del tuo destino.
Non è sempre vero. Se non accade nulla non è colpa tua.
Quando il risultato si fa attendere siamo portati a pensare che non siamo stati abbastanza all’altezza, che non ci abbiamo creduto fino in fondo, che tutto dipende da noi.
E giù a trovare le scuse di sollievo, come paraventi dietro ai quali nascondere il nostro senso di solitudine e inadeguatezza, dove nascondere lecite debolezze agli occhi degli altri, che ci vogliono fermi, propositivi, attenti, pronti e sempre “sul pezzo”.
La pressione sociale che viviamo, in una qualche forma di auto-motivazione, ci offre un esempio costante di successo, di bellezza, di accettazione.
LinkedIn, tripudio di successi
È tutto sempre TOP, tutti si complimentano, tutti sono orgogliosi di ricoprire una nuova posizione lavorativa, tutto è all’apice della montagna, dove c’è qualcuno tra noi che sventola una bandiera.
Raramente vedo un contenuto differente, dove si parla di qualcosa che non funziona. Tutti noi diamo lezione agli altri, dimostriamo di essere forti, di successo e di conoscere il mondo.
Ovviamente non è sempre così, solo che, ultimamente, mi capita di aprire LinkedIn e di vedere la bacheca come un grande manifesto di persone di successo.
Non so cosa sia giusto e cosa non lo sia.
Forse è corretto usare LinkedIn in questo modo, perché c’è un motivo dietro al desiderio di comunicare, cioè si comunica per raggiungere un risultato, magari per mostrare agli altri di valere, per mettersi in mostra, per spingere a considerarci, a ricordarci, in una costante tensione che ti spinge a scrivere anche quando non dovresti farlo, quando non vorresti farlo, perché sei scarico di idee, perché senti di aver dato tanto, perché sei dipendente da un meccanismo di riconoscimento e accettazione, così come è successo a me per molto tempo.
Mi sto ponendo il problema perché spesso mi sento un automa e non ho più voglia di falsificare il tempo in nome delle performance, delle revenue, del successo e della scalata sociale.
Più passa il tempo, più mi rendo conto che questo modello non è sostenibile, è violento, vorace, intenso e dove stare dietro al trend, agli stream, ai messaggi è usurante.
Riesco a malapena a seguire il flusso, mi perdo.
Troppi social, troppi messaggi, troppi contenuti, troppe persone che reclamano interazione e risposte, ponendo domande e sollecitazioni; quanto questo sia realmente funzionale al lavoro non lo so, ma credo che ci sia un limite tra il cercare di farsi conoscere ed apprezzare rispetto a volere a tutti i costi emergere ed essere presenti ovunque. Dov’è il tempo necessario a fare tutto ciò? Non c’è o non mi sembra ci sia.
Guadagnare autenticità significa “abbassare la maschera”
Resto una persona come tante, non troppo complessa, non troppo scontata ma capace di osservare la società, mi impegno costantemente nel cercare di decodificare la società per capire dove voglio stare.
Se potessimo per un attimo provare a mostrarci alla maniera più autentica, cosa potrebbe succedere? Magari bilanciando meglio la nostra presenza digitale?
Non credo che possa derivarne un danno reputazionale, forse potrebbe generare un momento di maggiore riconoscimento, di maggiore comprensione, di maggiore umanità tra pari.
Oppure potrei scoprire di essere il solo a voler togliere la maschera dell’automa, questo pilota automatico che da anni sta mangiando molto del mio tempo utile, in cambio della sensazione di trovarmi sul giusto sentiero, quello del riconoscimento da parte degli altri.
Fino ad ora è stato estenuante ma questo affanno ha prodotto diversi risultati interessanti, certo non mi hanno cambiato la vita ma ho avuto l’opportunità di farmi ascoltare e di condividere un punto di vista.
La soluzione è forse l’ascolto e la pausa?
Tra pochi giorni festeggerò un anno esatto del progetto Customer Mindset, abbiamo pubblicato 2 volumi, pubblicato 63 articoli su Substack e LinkedIn Newsletter inviati a 2500 iscritti a settimana, registrato 32 episodi del podcast, più di 200 ore in aula dal vivo presso Ilas, Luiss Guido Carli, IPE Business e Federico II. Credetemi, non è poco.
Ricomincio con il segno “meno”
Questo articolo che riceverete sarà per me uno spartiacque, segnerà la fine di un periodo molto intenso e l’inizio di un periodo più leggero, con meno impegni, meno incontri, meno formazione.
Questo testo fa parte di un dialogo che faccio a voce alta con me stesso, ma ho preferito coinvolgervi, perché leggendomi mi siete stati molto vicini e mi avete sostenuto e questo per me conta moltissimo.
Quindi scriverò di meno ma più intensamente, facendo più ricerca, che richiede tempo, ed evitando di essere troppo presente nelle vostre quotidianità.
A presto!
José Compagnone