Viviamo in un periodo in cui essere produttivi sembra l’unica cosa che conta.
Ogni minuto deve essere ottimizzato, ogni attività deve avere un senso immediato, ogni obiettivo deve essere “sfidante”.
Il lavoro non è più solo lavoro: è una corsa continua a chi fa di più, più in fretta e possibilmente senza sbagliare mai.
Dentro questa cultura del “fare”, dove tutto è performance, sta nascendo (o forse esplodendo) un fenomeno sempre più diffuso: il ghostworking.
Cioè fingere di essere impegnati, mantenere l’apparenza di chi lavora anche quando non c’è nulla da fare o, peggio, quando il lavoro non ha più senso.
E non parliamo solo di chi si limita a scaldare la sedia: c’è chi partecipa a riunioni inutili, chi scrive frasi senza senso sulla tastiera, chi tiene una chiamata inesistente con l’orecchio incollato al telefono, chi lascia Excel aperto mentre guarda tutt’altro.
Chi, semplicemente, si protegge da un sistema che chiede tanto, ma restituisce poco.
Un recente studio statunitense ha raccolto dati su questi comportamenti: il 23% dei lavoratori gira per l’ufficio con un quaderno in mano per sembrare operativo; il 22% batte sulla tastiera parole senza senso; il 15% finge telefonate; un altro 15% lascia fogli di calcolo aperti mentre guarda contenuti non pertinenti; il 12% organizza riunioni fasulle.
E ancora: il 24% sfrutta il tempo in ufficio per aggiornare il curriculum; il 23% si candida a nuove posizioni usando i computer aziendali; il 20% risponde alle chiamate dei recruiter direttamente dalla propria postazione; e il 19% si allontana furtivamente per fare colloqui.
Perché non è sempre una questione di pigrizia.
Spesso è una forma di autodifesa.
Quando l’unica cosa che conta è sembrare produttivi – più che esserlo davvero – è inevitabile che ci si inventi qualcosa per rientrare nei ranghi.
È il modo in cui si sopravvive in ambienti dove il valore di quello che fai non viene davvero riconosciuto.
E succede soprattutto in quei lavori dove la creatività, l’intuizione e il pensiero strategico non possono essere misurati a colpi di fogli Excel.
Un copywriter non ha un contatore di righe scritte all’ora. Un designer non può sfornare idee come fossero fotocopie.
Ma è quello che a volte ci si aspetta.
Il problema è che si usano metri di giudizio sbagliati per valutare lavori che richiedono tempo, silenzio e profondità.
E così si finisce per far finta. Per giocare al gioco dell’efficienza, quando in realtà si sta cercando solo un po’ di senso.
E poi c’è lo smartworking, che ha mescolato tutto.
Ha portato flessibilità, certo. Ma anche isolamento, confusione tra casa e ufficio, sparizione di quel minimo di socialità che dava un po’ di colore alle giornate.
E quando il lavoro si svuota di significato, si cerca di riempirlo come si può.
In questo scenario, puntare il dito contro chi simula è troppo facile. È riduttivo. La questione è più ampia, più profonda.
Riguarda un modello di lavoro che spesso non funziona più. Che parla di numeri, ma non ascolta le persone.
Che pretende performance, ma non costruisce relazioni. Che mette gli obiettivi prima delle condizioni per raggiungerli.
In aziende dove la distanza tra chi decide e chi lavora è sempre più grande, dove le carriere si muovono secondo logiche poco chiare, dove la creatività è vista come una minaccia e non come un valore, il ghostworking diventa una risposta naturale.
Allora forse bisognerebbe cambiare approccio.
Pensare alle aziende come luoghi dove le persone stanno bene, crescono, si esprimono. Dove il benessere non è un benefit, ma una base. Dove le persone scelgono di restare, non perché devono, ma perché vogliono.
Fingere di lavorare non è il problema. È il sintomo. E prima di correggerlo, bisogna capire cosa lo provoca.
Il ghostworking ci dice che c’è qualcosa che non va. Ascoltiamolo.
E poi, magari, facciamoci una domanda semplice ma potente: il modo in cui lavoriamo oggi ci sta davvero portando dove vogliamo andare?