Dissenso illogico
Cosa accade quando non vogliamo o non troviamo una soluzione comune?
Si avvicinano le feste e vi propongo un “pippone natalizio”.
E’ un testo molto lungo e richiede un tempo di lettura importante, qualcuno di voi troverà il tempo per leggerlo. Intanto l’ho scritto per me, per ragionare e fissare qualche idea.
Come molti di voi sapranno, la mia formazione ha radici antropologiche, e da sempre mi occupo di osservare il comportamento umano, gli usi e i costumi del “popolo digitale”.
La logica del litigio
Mi interrogo spesso su come tutti noi prendiamo (o evitiamo di prendere) decisioni, su come talvolta ci nascondiamo dietro barriere invisibili, evitando il confronto diretto.
Quando infine entriamo in contatto, non di rado lo facciamo nella maniera meno costruttiva: un approccio che genera distanze incolmabili, divergenze profondissime, assenza di punti d’incontro, fino a tracimare in una violenza che contamina ogni sfera del tessuto sociale.
Di seguito cercherò di sviluppare un ragionamento antropologico sul dissenso.
L’obiettivo è comprendere come il dissenso, inteso non soltanto come divergenza di opinioni ma come dinamica relazionale capace di generare conflitto sociale, mancanza di empatia e stagnazione divisiva, possa essere interpretato alla luce dei modelli di comprensione dell’umano.
Il dissenso è un comportamento universale, riscontrabile in tutte le società umane, e gli antropologi hanno spesso indagato come differenti culture gestiscano e risolvano i conflitti interni, tra individui o gruppi.
In molte società tradizionali, l’apparato rituale, la mediazione di figure terze o l’utilizzo di sistemi istituzionalizzati di “risoluzione delle dispute” fungono da meccanismi per canalizzare il dissenso prima che degeneri in violenza aperta.
Tuttavia, l’assenza di sistemi di mediazione efficaci, il venir meno di credenze o norme condivise e la perdita di autorevolezza delle istituzioni comportano il rischio di una “illogicità” del dissenso, che mi interessa comprendere, in cui le parti in conflitto non riescono più a riconoscersi reciprocamente come interlocutori validi.
Siamo influenzabili
Da una prospettiva cognitiva, studi come quelli di Daniel Kahneman e Amos Tversky sulla “razionalità limitata” (Kahneman, Thinking, Fast and Slow, 2011) suggeriscono che gli esseri umani non valutano le informazioni in modo puramente razionale, bensì sono influenzati da bias cognitivi, euristiche e pregiudizi. Ne parlo spesso ai convegni, in aula e nei miei libri.
Quando ci si trova in dissenso con un’altra persona, questi bias possono rafforzare la percezione dell’altro come irragionevole o ostile, a prescindere dalla consistenza logica delle sue argomentazioni.
L’effetto “backfire” (documentato in studi di Brendan Nyhan e Jason Reifler, 2010) mostra come, di fronte a prove contrarie alla propria convinzione, spesso si tenda a rafforzare la propria posizione iniziale invece di modificarla. Questo contribuisce ad una spirale di illogicità del dissenso: più l’altro mette in discussione la nostra convinzione, maggiore è la nostra chiusura.
In termini antropologici e sociologici, il dissenso non è solo un fatto cognitivo, ma un fenomeno situato culturalmente e socialmente.
Spesso siamo impermeabili alle ragioni dell’altro
Dal banale litigio alla “rottura”
La “rottura” nel dissenso avviene quando non esiste più un terreno comune per una negoziazione del significato.
L’altro non è più percepito come “uno di noi”, ma come un estraneo o un nemico. Questo scivolamento produce risentimento, un sentimento denso di incomprensione, poiché manca la capacità o la volontà di calarsi nella prospettiva altrui.
Sentire l’altro
L’empatia, l’abilità di percepire lo stato mentale ed emotivo dell’altro, è considerata dagli antropologi e psicologi sociali una leva per la costruzione e il mantenimento del consenso.
Laddove l’empatia è carente, si crea un vuoto che può essere colmato dall’ostilità e dal disprezzo.
L’assenza di empatia peggiora la comunicazione e genera una spirale di sospetto, attribuzione di cattive intenzioni e, in definitiva, dissenso illogico.
Quando non si è disposti ad assumere la prospettiva dell’altro, non si è neppure in grado di coglierne la logica interna, condannandolo a un’alterità irriducibile.
Strategie di potere
Un altro elemento che può spiegare l’illogicità del dissenso è l’uso strategico della contrapposizione.
In alcuni casi, il mantenimento di una posizione di dissenso ostinato, anche contro ogni evidenza, può avere un valore opportunistico o strategico: legittimare un potere, difendere interessi economici, o consolidare un’identità politica o religiosa.
Le divisioni e i disaccordi radicali possano essere strumentalizzati per rafforzare la coesione interna di un gruppo, per marcare confini identitari e per mobilitare risorse politiche o economiche.
In questi casi, l’illogicità non è tanto cognitiva quanto strategica: la “ragione” non è più nella verità dell’argomentazione, ma nel vantaggio che si ottiene mantenendo la contrapposizione.
Le conseguenze
La persistenza del dissenso illogico genera tensioni sociali, stigmatizzazioni, esclusioni e, infine, violenza – sia verbale che fisica.
Laddove le parti non cercano o non riescono a trovare soluzioni compromissorie o una piattaforma comune di comprensione, si creano spazi chiusi di comunicazione in cui la divergenza è perpetuata e amplificata.
Questo isolamento reciproco alimenta il conflitto e ne accelera l’escalation.
Ulteriore indizio del ragionamento è l’elemento fondamentale nell’analisi del dissenso: lo spazio in cui esso si manifesta e le condizioni tecnologiche, sociali e psicologiche che ne modellano la forma e la sostanza.
Rispetto allo scenario dei social media e delle piattaforme digitali, emergono alcuni punti chiave:
Il dissenso come opportunità di crescita
Il dissenso, in un contesto ideale, può stimolare il confronto costruttivo.
Filosofi, sociologi e antropologi hanno spesso sottolineato come il mettere in questione l’idea dell’altro e l’apertura a un dialogo orientato a comprendere la posizione altrui, siano momenti di autentica crescita, capaci di indurre idee innovative e soluzioni inattese a problemi complessi.
Tuttavia, nella pratica, il dissenso può diventare un meccanismo difensivo.
Le idee, specie in ambiti culturali e politici fortemente polarizzati, sono spesso vissute come estensioni della propria identità.
Perdere un confronto argomentativo o riconoscere validità alle posizioni dell’interlocutore può essere percepito come una minaccia non solo alle proprie convinzioni, ma al proprio senso di sé.
Questa tendenza a proteggere il proprio “territorio cognitivo” e la propria identità culturale è accentuata dalle dinamiche tribali dei social media, dove la ricerca di conferme e il bisogno di sentirsi in un gruppo di pari la fanno da padrone.
Mimesi, anonimato e disinibizione online
La “mimesi” del dissenso nelle piattaforme digitali – ovvero l’assumere posizioni ostentatamente critiche e provocatorie, senza un reale interesse per un confronto costruttivo – è facilitata da tre fattori principali:
Analfabetismo emotivo digitale: Le piattaforme spesso non incoraggiano l’empatia, la comprensione e il contesto. L’interazione testuale frammentaria e rapida, priva delle sfumature del contatto umano diretto, facilita l’incomprensione e l’ostilità.
Analfabetismo cognitivo: L’assenza di un contesto informativo chiaro e la rapida circolazione di informazioni non verificate creano una condizione in cui le persone fanno leva su scorciatoie cognitive. In questo scenario, il dissenso illogico o pretestuoso trova terreno fertile.
Effetto della disinibizione online: L’anonimato (o la percezione di anonimato), come mostrato da John Suler e altri studiosi della psicologia di Internet, riduce i freni inibitori: si accusa, si insulta, si estremizzano posizioni che forse, di persona, non si sosterrebbero con la stessa durezza. Questo può trasformare il dissenso in un’arma retorica di attacco, più che in uno strumento di confronto.
Dall’online all’offline: il dissenso che trascende il digitale
Un problema rilevante è che le tensioni maturate online non restano confinate nel mondo virtuale. Spesso, l’odio, la chiusura e la rabbia si riversano nelle relazioni faccia a faccia, alimentando scontri e divisioni sociali tangibili.
Questa dinamica di protezione del proprio spazio cognitivo trova nei social un ambiente favorevole alla costruzione di “bolle” d’informazione e “camere di risonanza” in cui i soggetti cercano conferme ai propri pregiudizi e raramente si espongono a punti di vista avversi.
No, non hai ragione tu.
Ciò rafforza l’illusione di avere sempre ragione, alimentando un dissenso strutturato non sulla comprensione, ma sulla delegittimazione dell’altro.
La conseguenza è che il dissenso non diviene più uno strumento di arricchimento del dibattito, bensì un dispositivo di blindatura identitaria.
Ascoltami, una buona volta
La volontà di difendere il proprio spazio cognitivo impedisce di cogliere quanto possa essere utile l’ascolto del diverso, e quanto valore possa scaturire da un effettivo scambio di idee.
Botta e risposta
La presenza di spazi in cui gli interlocutori non dialogano direttamente tra loro, ma si limitano a “rispondere” in assenza fisica dell’altro, crea una dinamica artificiale.
In TV, ad esempio, capita che un politico venga intervistato e i suoi commenti siano poi ripresi in un altro momento da un avversario, spesso senza possibilità di un immediato contraddittorio.
Questa asincronia può generare narrazioni parallele, incoraggiando la polarizzazione invece che la convergenza.
L’assenza di interazioni “in tempo reale” riduce la possibilità di cogliere sfumature, chiarire equivoci e approfondire punti di disaccordo.
Pressione mediatica e spettacolarizzazione
Nei talk show, anche quando gli interlocutori sono presenti contemporaneamente, la pressione del contesto – pubblico dal vivo, milioni di telespettatori, necessità di sintesi e tempi ristretti – favorisce una comunicazione aggressiva, tesa più a segnare punti retorici che ad avviare un confronto onesto.
I conduttori, a volte, enfatizzano la contrapposizione per ottenere maggiore attenzione, generando una “logica dell’arena” in cui l’uditorio si aspetta un confronto muscolare, non l’emergere graduale di punti di contatto.
La velocità della semplificazione online
Nell’ambiente digitale, l’accesso immediato a una mole immensa d’informazioni non è sinonimo di qualità o approfondimento. Le dinamiche dell’informazione online spingono verso letture veloci, superficiali, basate su titoli, snippet di testo, e opinioni improvvisate.
L’effetto è doppio:
Da un lato, si formano opinioni personali non supportate dai fatti, scaturite da interpretazioni parziali o strumentali.
Dall’altro, si stimola un “dissenso performativo”, in cui il commento critico non mira al dialogo, ma all’auto-affermazione, alla segnalazione di appartenenza a un certo gruppo o alla delegittimazione dell’altro.
Confronti a distanza su questioni complesse: le capre
Il dibattito su grandi temi internazionali (come le elezioni americane, i conflitti in Ucraina, in Medio Oriente, o i processi politici complessi) spesso finisce per essere condotto attraverso commenti episodici, frammentari e non contestualizzati.
La distanza fisica e culturale dal fenomeno commentato, unita a una scarsa comprensione storica o geografica, favorisce una semplificazione estrema: l’utente online, spettatore distante e non esperto, tende a offrire opinioni molto nette e polarizzate, spesso prive di cognizione di causa.
Questo genera un “falso senso di competenza”, in cui si discute come se si avesse piena cognizione dei fatti, senza la minima consapevolezza delle proprie lacune.
Opportunity cost
Dietro a queste dinamiche si cela anche un “costo d’opportunità” sociale: le tecnologie e la molteplicità di fonti informative disponibili oggi consentirebbero, in potenza, un’informazione più approfondita, variegata, contestuale, nonché l’accesso diretto a voci competenti e plurali.
Tuttavia, invece di sfruttare questa opportunità per elevare la qualità del dibattito, spesso ci si limita a consolidare le proprie convinzioni, selezionando fonti ad hoc e contribuendo a un dissenso sterile.
Il mercato delle opinioni
Quello che potrebbe rappresentare uno scenario di crescita cognitiva condivisa diventa così un “mercato delle opinioni” dove domina la reattività, non la riflessività.
La confusione
In questo contesto, l’asincronia e la frammentazione non aiutano un dialogo dialettico, ma un accumulo di monologhi.
Questa forma di “non-incontro” alimenta la confusione e la diffidenza reciproca, favorendo l’espansione di sentimenti di risentimento, insoddisfazione e scetticismo verso qualsiasi fonte autorevole.
La difficoltà di stabilire un terreno comune di riferimento (fatti condivisi, fonti affidabili, contesto interpretativo) aumenta la percezione dell’altro come qualcuno che “non capisce” o “non vuole capire”, accentuando la distanza e l’irritazione.
Capisco quindi che il dissenso non va demonizzato in sé, poiché può essere un’opportunità di crescita e di confronto.
Il problema emerge quando il dissenso diventa illogico, cioè quando le parti coinvolte non tentano realmente di trovare un terreno comune, ma si arroccano su posizioni monolitiche e divisive, orientate a rafforzare il conflitto invece che a risolverlo.
Questo atteggiamento, sostenuto spesso da opinioni non verificate e alimentato dalla spettacolarizzazione mediatica, può contagiare l’intero corpo sociale, generando tensioni e fratture all’interno della collettività.
Se la politica, la religione o la medicina diventano campi di battaglia verbale – fondati sulla difesa cieca dei propri pregiudizi – i loro effetti si riverberano a macchia d’olio, soprattutto laddove coloro che esercitano il potere decisionale sfruttano tale polarizzazione per mantenere o accrescere il proprio consenso.
In questo modo, si perde di vista il vero nodo della discussione, scivolando in un circolo vizioso di delegittimazione reciproca.
La pace e il conflitto sono dimensioni costruite fra esseri umani.
Se oggi assistiamo al ritorno della guerra come fenomeno reale, non è solo per questioni geopolitiche, ma anche per il clima di confusione e diseducazione civica in cui ci muoviamo, incoraggiato da una diffusione incontrollata dei media e da una mancanza diffusa di rispetto.
Per alcuni, la conflittualità è addirittura un modo per affermare la propria esistenza, per sentirsi parte di una collettività, sia pure radunata attorno a valori negativi e antagonisti.
Viene a mancare, così, la cultura della reciprocità, dell’ascolto, del dialogo fondato su dati oggettivi e comprensione del contesto.
La pace diviene un traguardo straordinario anziché la norma, mentre l’abitudine a vivere in uno stato di continua contrapposizione alimenta un perenne clima di guerra, ideologica o reale che sia.
Bianco contro nero, destra contro sinistra, una tifoseria contro l’altra, “regolari” contro “clandestini”, sostenitori della guerra contro pacifisti: pare non esistere spazio per intese costruttive e progresso comune.
Eppure, possiamo immaginare una dimensione in cui i segni opposti si annullano, in cui l’alterità cessa di essere un pretesto per lo scontro e diventa invece la base per un dialogo reale.
Un dialogo capace di trasformare il dissenso in uno strumento per arricchire la comprensione reciproca e fondare una civiltà più matura, lucida, umana.
Un’occasione straordinaria per riscoprire il valore della verità, del rispetto e della convivenza pacifica.
Buone feste a tutti, tranne a quelli che non sono arrivati fino a qui :-)